- INFO POINT
- Di Matteo Ferrario
- Dove: Milano
L’architettura che nasce dal dialogo
ProtagonistiDialogo: una delle parole chiave del nostro incontro con i fondatori di Park Associati, gli architetti Filippo Pagliani e Michele Rossi, nello studio di via Garofalo 31 a Milano, in cui lavorano circa 100 persone, di cui 9 associati e 8 project leader.
Dialogo con la città, il suo tessuto e la sua vita quotidiana: è stata questa la prima impressione che abbiamo raccolto, varcando il portone e attraversando la corte interna verso l’ingresso al piano terra, dove si trova anche lo spazio polifunzionale di Park Hub, destinato a cicli di conferenze pubbliche e mostre di giovani designer e artisti.
La mattinata di confronti, spunti e conversazioni che è seguita non ha fatto che rafforzare questa sensazione iniziale: quella di uno studio dalla vocazione internazionale, ma con una disponibilità tutta milanese a trasformare le eredità storiche in entità vive, da alimentare con idee contemporanee anziché museificarle.
E non appare casuale che i due piani dell’edificio in cui si svolge la giornata lavorativa degli architetti ne mostrino con rispetto, ma senza nostalgie, l’originaria identità industriale: la capacità di ascolto e confronto col passato è una sorta di fil rouge che attraversa i 24 anni di storia di Park Associati, e che ricorre più volte anche nella nostra chiacchierata coi due fondatori.
Gli anni della formazione
Filippo Pagliani ricorda gli anni delle prime esperienze professionali: “Sono state fondamentali, perché entrambi abbiamo avuto modo di lavorare all’interno di realtà molto solide.
Personalmente mi sono formato per alcuni anni nello studio Piano a Parigi, per poi passare a quello di Michele De Lucchi, qui a Milano”.
È a questo punto che Pagliani conosce Michele Rossi, ma l’incontro non coincide ancora con l’inizio della collaborazione tra i due e la fondazione di Park Associati, perché si tratta di una sorta di passaggio del testimone.
“Abbiamo fatto in tempo a lavorare insieme solo per poche settimane” racconta Rossi. “Dopo essermi laureato al Politecnico di Milano - in tempi in cui la facoltà di architettura prevedeva ancora un percorso molto variegato tra design d’interni, progettazione architettonica e urbanistica - io avevo lavorato per sei anni nello studio di De Lucchi, vivendo la mia crescita professionale di pari passo con quella dello studio. Ma al momento dell’arrivo di Filippo stavo per trasferirmi a Londra”.
Mentre Rossi prosegue il suo percorso con le esperienze londinesi, tra cui quella nello studio di David Chipperfield, Pagliani ha l’opportunità di confrontarsi con scale più ridotte e un approccio diverso da quello sperimentato fino ad allora con Piano, ma altrettanto prezioso per gli orizzonti di ricerca progettuale che gli ha schiuso davanti.
Park Associati: una storia del XXI secolo
Il cambiamento destinato a confluire nella nascita di Park Associati prende forma negli ultimi mesi del 1999, quando Rossi ritorna a Milano per lavorare su progetti propri e inizia a condividere con Pagliani un appartamento adattato a studio.
Ricorda Pagliani: “All’inizio con noi c’erano anche due designer, e ciascuno si dedicava in autonomia alle proprie attività.
Successivamente, io e Michele abbiamo avuto l'opportunità di concentrarci su un progetto specifico, quello del Credit Suisse, che ci ha portato a forzare le tappe e decidere di fondare Park Associati: una cellula inizialmente molto piccola, che negli anni ha cominciato a crescere, finché non abbiamo avuto la necessità di spostarci qui in via Garofalo, in questo luogo fortunato che è ormai da anni la nostra casa”.
“Fin dall'inizio abbiamo avuto in mente uno studio che desse spazio a diversi progettisti” spiega Rossi “e non fosse soltanto riferito a me e a Filippo”.
La stessa scelta di non mettere in evidenza i due cognomi nella denominazione dello studio deriva proprio da questo rifiuto dell’autoreferenzialità, oltre che dall’ambizione di non porsi limiti di scala.
Rossi: “L'idea dell'architetto che si dedica al piccolo progetto in un’ottica molto artigianale era sicuramente un'idea che ci affascinava, da un certo punto di vista, ma non era la nostra”.
"Volevamo creare un luogo dove una serie di competenze e professionalità potessero lavorare insieme, consentendo a progetti molto più complessi di avere una propria unicità e originalità”.
Da qui l’esigenza di costruire negli anni uno staff non solo numericamente rilevante, ma soprattutto preparato e con poco turnover: “Quello di essere in grado di trattenere a lungo le persone oltre che formarle è sempre stato un nostro obiettivo” spiega Michele Rossi . “Avere una base di collaboratori che sono con noi da molto tempo ci ha permesso di attutire un paio di momenti di crescita improvvisa nel corso degli ultimi dieci anni, senza grandi difficoltà di gestione”.
La scelta di organizzare in questo modo lo studio appare a maggior ragione imprescindibile oggi, vista la dimensione dei progetti su cui lavora Park Associati, ma, rivela Rossi , l'intuizione era già presente in tempi non sospetti, quando tali sviluppi non erano ancora prevedibili.
“Alla base c’era proprio l'idea che l'architettura, per noi, fosse fondata sul dialogo”, racconta, sottolineando per la prima volta nel corso della chiacchierata l’importanza che riveste per Park questa parola chiave. “Non a caso siamo in due, che è il numero minimo di persone per rendere possibile un dialogo. Ma se il numero di interlocutori cresce, per noi è solo un bene: nel corso degli anni abbiamo definito un metodo progettuale che si basa moltissimo su questo spazio di continuo confronto. L’importante è che alla base ci sia sempre questo tipo di apertura al lavoro collettivo: chi non ha questo genere di approccio, da noi fa molta fatica”.
L’importanza del metodo
Ci sono studi i cui soci fondatori arrivano a coprire diverse aree di specializzazione, in un certo modo dividendosi gli ambiti di competenza. Rossi e Pagliani appaiono piuttosto come due figure complementari, che ancora oggi seguono insieme la fase iniziale di impostazione del progetto.
“Ovviamente abbiamo due personalità diverse” spiega Rossi “e questo ci consente anche di avere una certa flessibilità nel coltivare delle relazioni. Io ho sempre avuto più interesse per il lato organizzativo e la crescita delle persone che lavorano nello studio, mentre Filippo si concentra più sulla gestione del progetto nelle fasi successive e sul cantiere”.
Già a un primo sguardo, il portfolio di progetti realizzati da Park in questo primo quarto di secolo di vita dello studio presenta una grande eterogeneità a livello formale e stilistico.
“È difficile trovare una linea che li leghi l’uno all'altro” conferma Pagliani. “Eppure, stranamente, ci capita spesso di sentire qualcuno che oggi commenta un nostro progetto definendolo ‘tipicamente Park’".
"Noi fatichiamo a individuare realmente in un progetto le caratteristiche che lo rendono così ‘nostro’, e di questo andiamo orgogliosi, perché significa che ogni tema progettuale è stato analizzato e approfondito in ogni suo aspetto, secondo un metodo affinato negli anni".
La ricerca e l’importanza del processo vengono prima dello stile, dunque, ma finiscono ugualmente per determinarlo a un livello più profondo. O, per dirla con Ernesto Nathan Rogers, quando un artista è davvero tale, lascia sempre traccia di sé nel proprio lavoro, ed è tanto più profonda quanto meno si sia preoccupato di lasciarla.
“Non esiste la firma creativa o il gesto di una notte” ribadisce Pagliani. “È sempre tutto molto pensato e molto condiviso da me e Michele con altri, e credo che in questo consista la nostra forza”.
Prendere per mano i maestri
Nella conversazione con i due architetti nel loro spazio di via Garofalo, abbiamo toccato anche il tema del rapporto coi maestri.
Pagliani: “Credo sia un aspetto molto legato alla cultura e crescita personale di ciascuno. Ma proprio in virtù del nostro metodo, così improntato al confronto collettivo, fatico a immaginare un riferimento a qualche maestro in particolare. In ogni progetto i riferimenti sono molteplici, e vanno a indagare mondi completamente trasversali e diversi tra loro. Nel mondo di oggi l’attività progettuale è – uso questo termine in un’accezione positiva – ‘inquinata’ da un numero sempre maggiore di stimoli, non solo architettonici ma anche culturali, che non erano presenti all’inizio del nostro percorso”.
L’architetto diventa quindi una sorta di spugna, necessariamente pronta ad assorbire spunti e informazioni, e l’iter di progetto richiede una progressiva asciugatura per giungere a una sintesi finale condivisa.
Il dialogo con i grandi maestri italiani del passato è stato comunque un passaggio naturale per Park Associati nei progetti di recupero di edifici storici milanesi, come il Gioiaotto originariamente progettato da Marco Zanuso, la Serenissima dei fratelli Soncini e il complesso per abitazioni e uffici di Luigi Moretti in corso Italia [qui il nostro articolo].
“Abbiamo sempre cercato di dare una dimensione internazionale al nostro linguaggio” osserva Michele Rossi “ma siamo entrambi milanesi e ci siamo formati qui. La straordinaria varietà architettonica di questa città è sempre fonte di grandi suggestioni e idee, anche solo camminando per le sue strade. Negli ultimi vent’anni, Milano è diventata un laboratorio molto interessante di recupero e ripensamento degli edifici, facendo scuola nel mondo in questo ambito, e interventi come quelli appena citati ci collocano senz’altro all’interno del movimento”.
Rossi sottolinea come il lavoro di recupero di un edificio risalente agli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso richieda anche uno sforzo di comprensione dei criteri con cui è stato progettato in origine.
“Ad esempio, nella Serenissima avevamo un telaio in acciaio completamente passante tra esterno e interno, ma non per una qualche bizzarria degli architetti: semplicemente perché il concetto di ponte termico all’epoca non esisteva”.
L’approccio di Park prevede quindi, anche in questo caso, l’umiltà dell’ascolto e al tempo stesso la massima flessibilità nella ricerca di funzioni nuove, capaci di interpretare la contemporaneità e far continuare la vita dell’edificio storico: contaminarlo col presente, insomma, invece di museizzarlo.
“In lavori di questo tipo” spiega Pagliani “abbiamo preso per mano l’architetto d’origine e avviato idealmente con lui un percorso di analisi del progetto, che in alcuni casi ha dato vita a delle trasformazioni del tutto in linea con l’idea originaria - o, ad esempio nell’edificio morettiano, a un’operazione di puro restauro filologico basato su disegni e schizzi originali - mentre in altri ci ha portato a incidere in modo pesante per dare un segno completamente diverso – sempre, tuttavia, nell'ottica del recupero”.
Quello del Gioiaotto è invece un caso in cui Park ha scelto di esaltare l’orizzontalità del segno di cemento che caratterizzava il progetto di Zanuso, concentrando l’intervento sulle finestrature a nastro, sulla trasformazione del piano terra e sul tetto dell’edificio, trattato come un vero e proprio quinto prospetto.
Questa attenzione alla “vita in quota” dell’edificio, oltre che a quella a terra, si ritrova anche in altri progetti a cui lo studio sta lavorando attualmente, come quello in via Pirelli in collaborazione con Snøhetta.
Pagliani: “Molti di questi manufatti erano in origine palazzi per uffici, in cui fino a qualche anno fa il tetto era soltanto un apparato tecnico. La possibilità di utilizzarlo per aggiungere qualità alla fruizione dell’edificio è una parte che a nostro avviso merita di essere indagata, e sulla quale facciamo molti approfondimenti progettuali”.
La “pelle” come elemento di relazione col contesto e l’importanza della ricerca
Un aspetto ricorrente nel lavoro dello studio è l’attenzione riservata all’involucro edilizio: “Quella che noi chiamiamo la pelle dell'edificio” spiega Pagliani “è l'elemento di dialogo più forte col mondo esterno. Si tratta forse di una delle parti più studiate all'interno dei nostri progetti”.
In piena coerenza coi principi di fondo di Park, tale ricerca può condurre a esiti molto diversi tra loro anche sul piano della consistenza materica, da soluzioni molto cementizie a sistemi completamente trasparenti: “Se mettiamo a confronto i Luxottica Headquarters in piazzale Cadorna con Open 336 in Bicocca, risulta evidente come siano due mondi completamente diversi a livello di interpretazione del progetto” sottolinea Pagliani.
In particolare la doppia pelle del progetto Luxottica, spiega, è il frutto di uno studio volutamente estremizzato, in cui si è lavorato per sottrazione con la sottostruttura dell’involucro, per trasmettere a chi si trova nell’edificio la sensazione di non coglierne i confini esatti, di essere completamente proiettato verso l’esterno: “Questa soluzione è nata da una ricerca molto approfondita, un disegno quasi ossessivo del dettaglio”.
E proprio all’attività di ricerca è dedicata la cellula di Park Plus, una sorta di “studio nello studio”, i cui componenti lavorano nello stesso spazio degli altri architetti in via Garofalo 31.
“La parte di ricerca – che sia formale, o legata all’uso di un materiale innovativo, o anche a un materiale tradizionale impiegato in modo innovativo - è sempre stata qualcosa di importante per il lavoro dello studio” racconta Michele Rossi.
“Soprattutto per uno studio come il nostro, che ha sempre cercato di lavorare su diverse scale e senza una specializzazione rigida, è necessario acquisire con continuità informazioni, anche quelle non direttamente derivanti dall'esperienza progettuale”.
La ricerca, tuttavia, ha bisogno del suo margine di autonomia e dei suoi tempi, per forza di cose più lenti di quelli sempre più compressi imposti dai progetti.
“Per questo” continua Rossi “abbiamo deciso qualche anno fa di creare un'unità indipendente in grado di lavorare su diversi temi, che di solito decidiamo all'inizio dell'anno e che, una volta sviluppati, alimentano la parte progettuale”.
Il rapporto con la committenza
Parlando dei committenti con cui più spesso ha interagito lo studio in questi primi 24 anni di storia, Michele Rossi distingue tra due macrocategorie, molto diverse tra loro.
“La prima è quella che ci ha permesso di sviluppare progetti come Salewa o Luxottica: un tipo di committenza che ci chiede direttamente di progettare e costruire i suoi headquarters".
"In questi casi c’è un dialogo molto più diretto con chi vivrà l’edificio, che dovrà essere realizzato su misura in base alle esigenze e alla cultura dell’azienda, e potrà quindi richiedere anche linguaggi completamente diversi tra loro. Altro è invece il discorso quando gli interlocutori sono fondi di investimento, che mettono sul mercato un edificio senza sapere ancora chi vi andrà ad abitare”.
Se, dunque, progettando la nuova “casa” di un’azienda si insegue il massimo della personalizzazione, lavorando per un developer ci si confronta all’opposto con l’esigenza di ridurre questo elemento di unicità e riconoscibilità.
“Dal mio punto di vista, ovviamente, questo rischia di impoverire il progetto” commenta Rossi . “Ma stiamo cercando di far comprendere ai nostri committenti che la convinzione secondo cui un edificio di minor personalità sarebbe più appetibile sul mercato, a ben vedere, non è nemmeno così rispondente al vero".
"Se l’edilizia residenziale vive in effetti di una standardizzazione molto vasta - rendendo ormai molto simili tra loro gli edifici di qualsiasi architetto milanese, inclusi i nostri - nell’ambito degli uffici è cambiato il modo di lavorare. Il progetto prevede elementi di straordinarietà e di qualità architettonica che adesso sono molto più apprezzati dai fruitori: non si tratta più solo di esprimere una cultura aziendale, ma anche di mostrare attenzione e attrarre talenti verso un’azienda, o riportare in ufficio i dipendenti che preferiscono lavorare da casa”.
Da qui una recente tendenza generale a incorporare spazi pubblici e conviviali, o comunque tradizionalmente legati al tempo libero e alla sfera privata.
Spiega Pagliani: “Questo tentativo di portare un po' di mondo esterno, natura e spazi ibridi dentro ai luoghi del lavoro - un processo inevitabilmente accelerato dal periodo della pandemia - ci trova d’accordo e sarà più che mai evidente nel progetto che abbiamo in corso a Palazzo Sistema, in cui il verde entra su tutti i piani dell’edificio, compreso quello del tetto.
Anche l’intervento sull’ex hotel Michelangelo, il cosiddetto MI.C in piazza Duca d'Aosta, rispecchierà pienamente questa modalità”.
Su temi come il disegno urbano e il rapporto tra l’edificio e il suo intorno, ogni volta che è possibile, Park richiede uno sforzo di generosità alla propria committenza per aprire il progetto alla città, rendendolo permeabile e meno rigido nella separazione tra zone pubbliche e private.
Un approccio che fino a qualche anno fa era visto in un’ottica negativa, ma di cui adesso si iniziano a comprendere gli effetti positivi sul piano della riqualificazione urbana.
Rossi: “Cerchiamo sempre di non pensare a un edificio come qualcosa di isolato e senza relazioni”. E proprio per assicurare tale continuità tra progetto architettonico e disegno dello spazio pubblico, lo studio si è dotato di un suo dipartimento interno di landscaping e urban design.
La comunicazione del progetto
Un aspetto che Park Associati considera da sempre rilevante è quello della comunicazione - anche e soprattutto visuale - della sua attività di progetto.
Spiega Michele Rossi: “Noi cerchiamo di seguire il progetto in tutte le fasi, a partire da quella ideativa iniziale, e quindi abbiamo i nostri renderisti interni, perché è importante che a realizzare i render sia qualcuno che concepisce il progetto insieme a noi. Lo stesso discorso vale per la parte di modellistica”.
Anche l’attività di continua documentazione fotografica condotta sui cantieri, insieme alle riprese che poi vengono utilizzate nelle pillole video sul canale YouTube di Park, simili a trailer in cui viene illustrato in pochi minuti il singolo progetto dal capo-commessa, rappresentano un modo per comprendere meglio il lavoro in corso, oltre a una potenziale fonte di suggestioni per futuri progetti.
“E poi è qualcosa che ci diverte” conclude Rossi “perché ci aiuta a raccontare quello che siamo e il modo in cui lavoriamo”.