- INFO POINT
- Di Matteo Ferrario
- Dove: Londra
- Stato: Progetto
Gotico minimalista
Spazi espositivi e museali“Fai un elenco di tutte le cose che consideri essenziali nella tua vita”.
Si apre con un tono prossimo al comando, nel romanzo thriller psicologico La ragazza di prima di J.P. Delaney (pseudonimo dello scrittore inglese Anthony Capella) uscito in edizione italiana per Mondadori nel 2017, ma anche nella mini-serie tv omonima The girl before prodotta da BBC nel 2021, il questionario che il controverso architetto Edward Monkford, padre di un nuovo linguaggio architettonico battezzato dalla critica come “tecno minimalismo”, fa compilare attraverso un’agenzia immobiliare alle due giovani donne che, in due piani temporali diversi della storia e con diversi tipi di trauma alle spalle, accettano di candidarsi come affittuarie della sua casa situata nel nord di Londra, in un quartiere residenziale nei pressi di Hendon.
Il casting per chi vuole abitare la casa dell’architetto
Proprio così: nell’opera di finzione a cui Capella ha lavorato per molti anni, ispirato sia dall’architettura contemporanea sia dall’interesse per il tema della perfezione - probabilmente non privo di implicazioni personali, visto che il libro è dedicato al figlio dell’autore, nato con la rarissima sindrome di Joubert tipo B - chi aspira a prendere in affitto e abitare gli spazi della residenza, una villa urbana che rappresenta una sorta di edificio-manifesto della poetica di Monkford, deve sottoporsi a una severa procedura di valutazione, che prevede appunto la compilazione di un questionario e l’accettazione di una lunga serie di condizioni, molte delle quali tese a decidere e addirittura monitorare lo stile di vita degli occupanti.
Una volta che l’architetto-proprietario avrà deciso, a suo insindacabile giudizio e secondo criteri oscuri - cui però non sembra estranea la somiglianza delle prescelte con la moglie morta in circostanze misteriose insieme al figlio - il prezzo da pagare non sarà quello di mercato di un alto canone di affitto, ma quello umano, personale. E qui il problema non si limita alla trasmissione di dati destinati a rendere la casa e la sua avanzatissima domotica sempre più performanti, ma si estende ai comportamenti, alla
libertà personale, alla fruizione della casa stessa.
Ma in fondo, quale architetto, nel profondo di sé, non ha mai desiderato di poter stabilire regole ferree per l’uso che il committente avrebbe dovuto fare dell’opera compiuta, riuscendo così a preservarne l’integrità nel tempo?
A maggior ragione quando il progettista è anche il proprietario del manufatto, come il carismatico fondatore dello studio Monkford Partnership nel romanzo di cui vi parliamo.
Romanzo gotico, architettura contemporanea
Immerso com’è in una società iperconnessa in cui condivide in continuazione informazioni, gusti e abitudini, alimentando algoritmi che un po’ per volta lo racchiudono in una bolla di contenuti e offerte simili, su Instagram o su Facebook, il lettore di oggi potrà facilmente vedere nello spunto narrativo una critica o addirittura una satira della vita senza privacy che in molti accettano di vivere sui social, in cambio di piccole comodità, contatti con una rete professionale o semplici gratificazioni narcisistiche.
Si tratta senz’altro di una chiave di lettura interessante, ma La ragazza di prima è molto più di questo: è un romanzo gotico scritto da un autore contemporaneo, in cui la casa diventa protagonista, un’entità a suo modo viva e dotata di un influsso sugli altri personaggi - come, per altri versi, avveniva nel racconto Il crollo della casa Usher di Edgar Allan Poe, o nel romanzo Rebecca la prima moglie di Daphne du Maurier e nella rispettiva versione cinematografica firmata da Hitchcock.
La differenza, e anche l’aspetto più interessante per noi che parliamo di architettura, è che per rivisitare questa tradizione Capella non ha scelto di collocare i personaggi della sua storia in un edificio antico dal fascino decadente e sinistro, ma in una casa contemporanea, di quelle che si definiscono “da rivista”: una delle opere che anche noi della redazione di PromisedLands non vedremmo l’ora di visitare accompagnati dall’architetto che ci parla a braccio del suo iter progettuale, o forse persino di abitare a nostra volta - naturalmente dopo aver compilato il tremendo questionario e rinunciato a portare suppellettili, figli e animali domestici nei suoi spazi apollinei.
Le influenze: Mies van der Rohe? No, Wren e Soane
Per quanto definizioni come “tecno minimalismo” possano far pensare a interpretazioni oltranziste di un percorso avviato quasi un secolo fa col padiglione tedesco di Barcellona e altri capolavori di Mies, e passato attraverso i suoi molti epigoni dal secondo dopoguerra in poi - ma forse anche a un contemporaneo inglese, John Pawson, che solo un anno prima dell’uscita del romanzo terminava il lavoro sugli interni del Design Museum di Londra - le vere fonti di ispirazione dell’architetto Edward Monkford per la casa di 1 Folgate Street si rivelano essere due edifici sacri di epoche precedenti: la chiesa di Santo Stefano in Walbrook, realizzata proprio a Londra tra il 1672 e il 1680 da Sir Christopher Wren, e il mausoleo progettato da Sir John Soane nella foggia di un tempietto neoclassico per la moglie Eliza, morta nel 1815.
È lo stesso Monkford a spiegare a una delle due protagoniste del romanzo, Jane, i motivi per cui considera Santo Stefano l’edificio più bello della sua città: “Dopo l’incendio, gli uomini che ricostruirono Londra scorsero l’opportunità di creare un nuovo tipo di architettura: dei centri dove chiunque potesse recarsi a pregare, indipendentemente dalla sua fede religiosa. È questa la ragione per cui adottarono questo stile essenziale e ordinato. Sapevano però di dover rimpiazzare l’oscurità delle chiese gotiche con qualcos’altro”.
L’architetto indica sul pavimento il riflesso del sole proveniente dalle grate e parla delle implicazioni col concetto di Illuminismo. Del mausoleo di Soane dice invece: “Solo perché costruisco in uno stile particolare, non vuol dire che non apprezzi anche gli altri, Jane. Quello che conta è l’eccellenza. L’eccellenza e l’originalità”.
1 Folgate Street: tra realtà, immaginazione e set
La prima domanda che sorge spontanea, di fronte a una storia incentrata su una magnifica residenza unifamiliare costruita a Londra da un architetto minimalista colto e maniaco del controllo, poi diventata serie tv, è se in qualche modo abbia finito per “esistere” anche nel mondo materiale: se per le riprese sia stato utilizzato un edificio simile a quello descritto nel libro, o se sia stato costruito appositamente un set dotato dei caratteri architettonici richiesti.
A giudicare da quanto dichiarato nelle interviste per il lancio della mini-serie dall’autore del libro, coinvolto per l’adattamento e la sceneggiatura, pare si tratti del secondo caso: sia per le scene girate in esterni in cui si vede il fronte principale della casa su strada, sia per quelle che si svolgono all’interno, sono stati creati due set distinti in due zone diverse di Bristol.
Folgate Street, la via in cui si trova la casa nel romanzo e nella serie, al civico 1, esiste davvero a Londra, ma è nell’East End, nei pressi del mercato di Spitalfields, e non nel sobborgo residenziale della periferia nord-ovest dove l’ha collocata Capella nella storia.
Interrogato sulla forma architettonica assunta dalla casa nella produzione BBC, l’autore ha ammesso che è diversa da come l’aveva immaginata lui nel libro, ma ha ribadito che l’unico modo per trasporla da un mondo narrativo all’altro in modo efficace era accettare che se ne occupassero altri, in un certo senso affidarla alla loro interpretazione.
lI risultato, come si può vedere nei quattro episodi trasmessi anche in Italia, di cui vi riproponiamo qui il trailer presente su YouTube, è senz’altro di un certo impatto e capace di avvicinarsi all’austerità monacale della poetica di Monkford – sempre in tema di dettagli, qualcuno potrà osservare che quello dell’architetto è sì un normalissimo cognome britannico e nordamericano, ma anche una crasi fra le parole “monk”, appunto “monaco” in inglese, e “Ford”, come a suggerire una bizzarra forma di ascesi spirituale nell’epoca della riproducibilità - ma, tutto sommato, meno sfidante e più convenzionale rispetto a quanto lasciato intravedere dal libro.
Il rapporto col contesto
L’obiettivo che ci poniamo noi di PromisedLands in questa prima uscita della rubrica “Gli spazi delle storie” è appunto quello di andare alla ricerca della visione iniziale dello scrittore, da considerarsi a tutti gli effetti come uno spunto progettuale, e provare ad avvicinarla con la nostra ricostruzione.
Per farlo, è inevitabile partire dalla prima descrizione che ci fa della casa una delle due voci narranti del romanzo, quella di Emma, che spera di portare ordine nel suo rapporto col fidanzato Simon dopo un episodio di effrazione e violenza dai contorni poco nitidi, subito nel vecchio appartamento mentre lui era assente.
La sorpresa è accentuata dal contesto, dominato dalla ripetitività delle facciate in mattoni degli edifici vittoriani che si inerpicano su per la collina verso Cricklewood, distinguibili l’uno dall’altro solo per le porte di ingresso o per le finestre a mezzaluna in vetro colorato.
Ma tutto cambia quando Emma e Simon arrivano con l’agente immobiliare davanti alla facciata della casa di Monkford a 1 Folgate Street: “Alla fine della strada, sull’angolo, c’è una siepe, oltre la quale si erge una costruzione bassa, un cubo compatto di pietra chiara. Solo qualche riquadro orizzontale di vetro, distribuito casualmente, indica che si tratta di una casa e non di un gigantesco fermacarte”.
La coppia segue l’agente “lungo il lato dove è ricavata una porta, perfettamente in linea con il muro. Non c’è traccia di campanello, ma se è per questo non si vede nemmeno una maniglia o una cassetta delle lettere o una targa con il nome, niente che indichi una presenza umana. L’agente spinge la porta, che si spalanca”. Di fronte allo stupore dei potenziali clienti, l’agente spiega che tutto nell’edificio, compresa la serratura, è comandato in automatico da una app presente sul suo cellulare o, senza nemmeno bisogno di login, tramite un braccialetto digitale destinato alla futura occupante.
“Nulla di superfluo”: tour guidato degli interni
Lo spazio si comprime in corrispondenza dell’ingresso, che Emma descrive come “un’anticamera appena più grande di un armadio. È troppo piccola per starci in due, così, quando l’agente mi segue, vado avanti senza essere sollecitata”.
Questo è il punto del romanzo in cui al lettore, insieme alla co-protagonista, viene mostrato per la prima volta l’interno di 1 Folgate Street, genericamente definito “spettacolare” dalla ragazza, che lavora nel marketing e non si occupa di architettura. La sua descrizione della zona giorno al piano terra è comunque più che sufficiente per attivare la nostra immaginazione: “Dalle grandi finestre, che guardano su un giardinetto delimitato da un alto muro di pietra, la luce si riversa all’interno. Il locale non è ampio, ma ha l’aria spaziosa. I muri e il pavimento sono tutti costruiti con la stessa pietra chiara. Le incavature alla base delle pareti danno l’impressione che queste siano sospese nell’aria. Ma ciò che colpisce di più è il vuoto".
"Non nel senso che la casa non sia arredata: vedo un tavolo di pietra in una stanza laterale, delle sedie dal design asciutto ed elegante, un lungo divano basso foderato di una pesante stoffa color crema, ma questo è tutto, non c’è altro che attiri lo sguardo. Niente porte, niente armadi, niente cornici alle finestre, non una foto né una presa elettrica, niente luci e nemmeno gli interruttori, come noto guardandomi attorno perplessa. E nonostante non abbia l’aria abbandonata né poco vissuta, non c’è nulla di superfluo”.
La seconda voce narrante, Jane, prima richiedente che Monkford si decide a selezionare dopo Emma, a distanza di un anno in cui la casa è rimasta misteriosamente sfitta, è una donna single che ha appena perso una bambina a gravidanza in corso, e a 1 Folgate Street sembra cercare qualcosa di diverso da chi l’ha preceduta: se Emma sperava di mettere ordine nella sua vita caotica e senza certezze con Simon attraverso un cambiamento radicale di abitudini, Jane non si sente del tutto a suo agio nella casa, ma avverte anche un’affinità sotterranea col silenzio, il vuoto e la perfezione fredda da mausoleo che le promette, tenendola al riparo dallo spettacolo doloroso dei bambini di altre madri che escono da scuola o corrono festanti.
Meno facile da impressionare e più osservatrice, appena entrata la definisce “levigata e perfetta come una galleria d’arte” e sembra concentrarsi di più sul trattamento delle superfici e i dettagli, mentre segue lo sguardo dell’agente verso l’alto, “dove le pareti nude, di una pietra color crema dall’aria costosa, si levano nel vuoto fino al tetto. Al piano superiore si accede tramite la scala più incredibilmente minimalista che io abbia mai visto. Sembra intagliata nella parete di un dirupo: gradini sospesi di pietra ruvida, senza corrimano né segni visibili di supporto”.
Per via del suo recente aborto spontaneo, l’agente evita di ripeterle quello che ha detto a Emma e Simon molti mesi prima: “Ovviamente non è fatta per i bambini”.
Le comunica invece un’altra regola: ogni sei mesi dovrà accettare di avere per casa una comitiva di studenti di architettura in visita, consentendo loro di accedere a tutte le stanze.
E a proposito di stanze: “Sbircio nella successiva, se ‘stanza’ è la parola adatta a descrivere uno spazio fluido dove non c’è apertura, per non parlare di una porta”. Jane fa riferimento al dettaglio del vaso di tulipani rosso sangue sul lungo tavolo di pietra, suggerendo che tra il living e la zona pranzo non vi siano soluzioni di continuità, ma che in qualche modo il visitatore percepisca lo stesso il passaggio da un ambiente all’altro.
Una sensazione simile pervade Emma mentre, nel sopralluogo dell’anno precedente, prova a descrivere la cucina, o meglio il piano in pietra che corre lungo la parete accanto al tavolo da pranzo: “A un’estremità c’è qualcosa che assomiglia a un rubinetto, un sottile tubo di acciaio che sporge al di sopra del piano, e la lieve cavità sottostante suggerisce che si tratti di un lavandino. All’altra estremità ci sono quattro fori, uno in fila all’altro. L’agente agita la mano su uno di essi e, con un sibilo, si leva istantaneamente una fiamma decisa”. E, per tornare sul tema dell’austerità monacale, dopo aver mostrato così il funzionamento dei fornelli, la stessa agente precisa che “in realtà l’architetto preferisce chiamare quest’area refettorio piuttosto che cucina”.
Se c’è un aspetto che differenzia profondamente la casa di 1 Folgate Street del romanzo da quella della mini-serie e, in definitiva, da tanti showroom e spazi espositivi allestiti secondo lo spirito dei tempi, si tratta proprio dell’uso che viene fatto dei valori materici e delle superfici continue. Nella finzione, ci appare chiaro che l’architetto abbia utilizzato materiali, soluzioni e tecnologie di eccellenza, senza porsi altri limiti da quelli previsti dalla sua filosofia progettuale, ma allo stesso tempo intuiamo che l’obiettivo non era quello di ottenere un effetto di opulenza, forse nemmeno di qualità, bensì il rigore, la fedeltà a un ideale: di pratica architettonica, ma anche di vita.
“Guardando da vicino” racconta Emma, affascinata e al tempo stesso intimidita come una bambina al cospetto della cucina-refettorio, che nella più pura tradizione del romanzo gotico sembra avere un’anima e un carattere propri, “mi accorgo che alcuni pannelli sulle pareti sono separati da piccole scanalature. Ne premo uno e la pietra si apre, non con un clic, ma con un sospiro, una lenta espirazione, per rivelare un minuscolo armadietto”.
Jane, un anno dopo, si avvicina alla finestra a tutt’altezza che affaccia sul giardino, fornendocene la prima descrizione: “Anche il termine ‘giardino’ è un po’ improprio. In realtà si tratta di un cortiletto chiuso, grande circa sei metri per quattro, pavimentato con la stessa pietra su cui sto posando i piedi".
"Una piccola striscia erbosa, perfettamente tosata e liscia come un campo da golf, termina a filo del muro. Non ci sono fiori. In realtà, a parte quel piccolo prato, lì fuori non c’è nulla che abbia vita né un minimo di colore. L’unico elemento decorativo è rappresentato da alcuni piccoli cerchi di ghiaia grigia”.
Emma segue invece Simon e l’agente su per la scalinata di lastre isolate, che fuoriescono dal muro senza parapetto - anche quelle non dissimili da soluzioni già ampiamente utilizzate e conosciute in architettura contemporanea, ma con una granulometria diversa, più scabra, con cui l’architetto vuole ricordare a se stesso e agli occupanti la durezza e la pesantezza della materia.
La zona notte si può immaginare come un mezzanino affacciato sullo spazio a doppia altezza del living: “La camera da letto è spoglia come il resto della casa. Il letto è incorporato - un piedestallo di pallida pietra con un materasso arrotolato in stile futon - e il bagno è privo di porta, ma è nascosto dietro un tramezzo per garantire un minimo di discrezione. Eppure, mentre l’essenzialità del piano inferiore era rigorosa e drammatica, qui sopra sembra calma, quasi intima. È come una cella di una prigione di lusso, osserva Simon”.
Libera dal fardello di una relazione in crisi ma perseguitata dal ricordo della bambina appena persa, Jane è invece eccitata e affascinata all’idea di vivere negli ambienti che sta scoprendo, ma anche vagamente turbata dalla loro mancanza di “vivacità” e di “morbidezza”, dall’assenza di tappeti e altri particolari che secondo lei potrebbero avvicinarli all’umano. Poi viene a sapere dall’agente che l’accordo restrittivo previsto dal proprietario vieta di introdurli nella casa, al pari di fotografie, piante ornamentali, tende e persino libri. “Niente libri?” replica. “Ma è ridicolo”. E, per quanto irretiti dall’opera dell’architetto, almeno su questo siamo totalmente d’accordo con lei.