- INFO POINT
- Di Silvano Lova
- Dove: Milano
- Progettista: One Works
Tempo, Architettura e Mondo
ProtagonistiNanismo imprenditoriale. In queste due semplici parole, anche nel settore della progettazione architettonica e urbanistica, troviamo la semplice, quanto inquietante, risposta alla scarsa rappresentatività degli studi di progettazione italiani a livello mondiale.
Un gap dimensionale e non qualitativo, che però ci vede secondi non solo a colossi internazionali di progettazione come quelli del mondo anglosassone, ma anche a studi espressione di contesti macroeconomici dimensionalmente molto meno significativi di quelli italiani.
La tradizionale frase “piccolo è bello”, perde di romanticismo e soprattutto di effettività, quando si debbano affrontare bandi di progetto per realizzare manufatti architettonici a scala urbana (se non intere città) con valori in gioco che facilmente superano cifre a sette zeri (ma possono anche arrivare a otto).
Servono competenze, struttura, capacità finanziaria e, soprattutto, una chiara comprensione delle dinamiche culturali (e non solo tecnologiche e progettuali) dei Paesi in cui i progetti verranno realizzati; un insieme di strumenti che, di fatto, sono quasi impossibili da ottenere da uno studio stile ‘one man show’ o comunque da studi dimensionalmente troppo compressi.
Siccome però il Tafazzismo non è la nostra cifra editoriale, vediamo anche l’altro lato della medaglia; una manciata di studi italiani (meno di una ventina) ha saputo rompere il paradigma ed è riuscita (non senza fatica, anche a causa dei nostri bizantinismi burocratici e legislativi) a crescere e a competere a livello internazionale. Ovvio, i grandi Studi anglosassoni con migliaia di dipendenti sono ancora fuori portata, ma i nostri pionieri ci stanno lavorando.
Come Promised Lands il nostro obiettivo è di dare voce a questi imprenditori (a queste dimensioni lo Studio diventa obbligatoriamente Azienda con tutto quello che ciò comporta) e per questo siamo andati a Milano, in via Amatore Sciesa, dove, all’interno di uno stabilimento industriale nel quale in passato si costruiva la Fiat Topolino, abbiamo incontrato i due soci fondatori di One Works (nella top 10 degli studi più grandi d’Italia), con cui abbiamo fatto altrettante interessanti chiacchierate.
Cominciamo oggi con quella di Leonardo Cavalli (a seguire quella con Giulio De Carli), con il quale abbiamo parlato della storia dello Studio, ma anche del concetto di Tempo in Architettura. Buona lettura.
Tra ego e realtà: storia e futuro di One Works
Alla base di ogni studio di progettazione c’è sempre il Sogno. Ma il Sogno ha bisogno della Volontà per concretizzarsi. Inutile girarci intorno, senza un atto di Volontà e tanto sacrificio non sarebbe possibile una storia come quella dello Studio One Works che vi raccontiamo oggi.
Parlando con Leonardo Cavalli , nella lunga intervista che ci ha concesso, questi assunti sembrano confermati e la genesi di One Works diventa più chiara.
Cavalli: “Lo studio One Works, la sua dimensione e la sua aspirazione, da una parte sono figli e figlie di un percorso complesso e dall’altra anche il frutto di una volontà che alcune volte prescinde o addirittura è contraria a quello che il contesto in cui è nata suggerirebbe come possibile. Io e Giulio (De Carli, ndr) siamo stati studenti universitari insieme, dopo l’università ci siamo persi di vista e poi ci siamo reincontrati nel 2000, quattordici anni dopo la laurea.
Già da studenti il nostro sogno era il ‘grande Studio’ o meglio in prima istanza lo ‘Studio grande’, dato che il concetto di grande Studio presume anche un principio di Qualità sulla cui presenza non sono io, ma i nostri clienti che devono pronunciarsi”.
Continua Leonardo Cavalli: “All’epoca non c’era nessuna ragione logica per immaginarlo, eravamo a metà degli anni ’80 e il mercato italiano non aveva nessuna capacità di permettere il sostentamento di grandi strutture di progettazione architettonica, mentre il mercato internazionale non si era ancora formato (l’Euro era ancora un progetto al di là da venire)”.
“Nonostante tutto questa è stata però sempre la nostra aspirazione, anche probabilmente naïf, però fin da subito presente. Senza questo aspetto, non credo che oggi potremmo essere quello che siamo, ancora una volta senza esprimere giudizi di qualità”.
“Nel 2007 abbiamo quindi, memori delle nostre aspirazioni di neolaureati, fondato One Works; già in quell’anno (rispetto agli anni ’80, ndr) il Mondo era sostanzialmente cambiato, in Italia da sette anni almeno avevano cominciato ad affacciarsi operatori di livello internazionale e il mercato consentiva di poter sostenere una dimensione diversa degli studi di progettazione”.
"La domanda di servizi e la credibilità degli studi, soprattutto all’estero, si era legata a una serie di parametri inerenti non necessariamente o solamente alla qualità specifica dell’architettura prodotta, ma anche ad assicurare un solido e strutturato servizio al proprio mercato di riferimento”.
“Naturalmente anche gli incarichi di progettazione afferenti al mondo infrastrutturale di cui ci siamo da sempre occupati aiutarono a spostare verso l’alto la dimensione dello studio, poiché mediamente questo tipo di architetture sono caratterizzate da una maggiore scala dimensionale e quindi generano flussi finanziari più importanti e di lunga durata, essenziali per la crescita organica di una struttura come la nostra”.
Prosegue Leonardo Cavalli : “È, però, altrettanto vero che abbiamo sempre cercato di essere un passo avanti al mercato: oggi fortunatamente ci sono numerosi studi di una certa dimensione e questo lo ritengo un vantaggio. Quando, infatti, One Works (fino all’incirca al 2018) era molto più grande degli altri nostri concorrenti, ci siamo più volti posti la domanda: ‘stiamo sbagliando qualcosa?’
“Il fatto che il numero degli studi grandi sia cresciuto negli ultimi anni ci conforta: in un certo senso è la conferma che avevamo capito, prima di altri, che quella era un’opportunità concreta, che noi avevamo chiara come obiettivo”.
“Obiettivo che perseguiamo tuttora, con altrettanta chiarezza ed è per questo che ci stiamo ponendo il tema di cosa succederà in futuro, di come garantire la continuità dello Studio e la sua crescita negli anni a venire. Non ci stiamo ponendo la questione solo noi fondatori, ma abbiamo chiesto a una società di consulenza specializzata, la KPMG, di tracciare il percorso da compiere e i passi da fare per arrivare alla creazione di una struttura che implementi il concetto di partnership all’interno della compagine dello Studio”.
“Detto questo, le nostre idee in merito non sono ancora completamente chiare; probabilmente per chi lavora in realtà come la nostra nel mondo anglosassone questo tema è assolutamente assodato sia dal punto dei vista dei soci senior sia da quello dei potenziali nuovi associati (un fattore questo da non sottovalutare)”.
“Il tema culturale che sta alle spalle di questo modello è, infatti, biunivoco e funziona solo se entrambe le parti in causa concordano e comprendono appieno le regole del gioco (condivisione dei vantaggi e dei rischi, ma anche di idee e capacità di mediazione)”.
“Sulla base delle nostre richieste KPMG ci ha costruito una road map che oggi stiamo cominciando a implementare. Abbiamo un vantaggio: nel nome dello Studio non c’è nessuno dei cognomi dei fondatori e questo è già un grande punto di partenza".
"Il marchio One Works non è stato pensato inizialmente con quell’obiettivo (o forse in parte sì), bensì perché sia io sia Giulio siamo convinti di non fare una architettura autoriale, strettamente legata a un cognome, ma piuttosto un’architettura di qualità frutto della collaborazione fra tanti soggetti; un servizio solido, in cui noi portiamo idee da mettere sul tavolo, idee che si devono integrare con tutti i soggetti che a questo tavolo collaborano, non solo i committenti”.
“Non essere uno studio autoriale è sicuramente un facilitatore che semplifica lo sforzo di dare continuità alla struttura, al di là dei fondatori. C’è oggi in Italia sicuramente un gap culturale attorno all’idea di partnership in uno studio di progettazione; gap che sentiamo sia da parte mia e di Giulio sia da parte dei nostri collaboratori. Non è certamente un percorso semplice, ci stiamo lavorando da un anno e in questo senso abbiamo istituito un gruppo di direttori che lavorano in autonomia rispetto a noi fondatori”.
“È un percorso di crescita comune che interessa anche le nuove generazioni. Non ho certezze in questo senso, ma credo che l’idea che a un certo punto un collaboratore lasciasse lo studio per fondarne il proprio, non sia più l’unica e neanche la più importante".
"Ovviamente le sensibilità sono differenti a seconda del Paese di origine dei nostri collaboratori (da noi lavorano professionisti che provengono da 31 nazioni diverse), dato che è molto diverso avere 30 anni se si proviene dall’Egitto o da Milano città”.
Chiosa Cavalli : “Sicuramente la mia impressione è che il desiderio di fare il piccolo studio non sia più dominante nelle nuove generazioni. E questo mi conforta e conferma nella volontà di portare avanti con determinazione il progetto immaginato con KPMG”.
Il vaglio della storia
Ma uno studio di architettura, per quando non autoriale come precisato da Cavalli, ha sempre degli stilemi di fondo che ne caratterizzano l’attività e ne connotano la riconoscibilità nella genesi basale di ogni progetto sia di un singolo edificio sia di scala infrastrutturale o urbana.
Sollecitato da questo punto di vista, Cavalli individua nella variabile Tempo e nella sua dinamica di interrelazione fra i manufatti costruiti, uno di questi capisaldi concettuali.
Sottolinea Cavalli: “Parlare della relazione fra Tempo e Architettura è ancora più essenziale quando il discorso venga affrontato in Italia (ma anche in Europa), in cui il tessuto costruito è particolarmente stratificato. Nel nostro Paese tutto ciò che viene realizzato deve necessariamente relazionarsi con numerose preesistenze. E trovo che questo sia un grande valore”.
“La relazione tra architetture esistenti e nuovi innesti ci porta a riflettere rispetto a una nuova caratterizzazione dell’architettura, che oggi sempre più spesso, viene vista più come un prodotto, con un Tempo ben determinato rispetto a un uso estremamente specifico”.
“L’individuazione di un equilibrio fra questi due fattori è senza dubbio un tema fondamentale su cui occorrerà riflettere nel prossimo futuro; da un lato c’è una domanda del mercato a specificare il prodotto (l’Architettura) in maniera sempre più puntuale (solo per restare nell’ambito residenziale si va dallo student housing al senior housing, dall’edilizia sociale a quella per le giovani coppie) dall’altro polo c’è l’osservazione di come il Costruito si sia comportato nel corso dei millenni”.
“In Italia e in Europa, ad esempio, alcune persone vivono e lavorano in edifici che sono stati costruiti 500 anni fa, senza pensare alle esigenze odierne. Si potrebbe affermare che c’è un Tempo dell’Architettura che è diverso da quello delle stagioni dell’Uomo ed è sostanzialmente differente anche dal tempo della Finanza, che oggi interagisce sempre più dinamicamente con l’architettura”.
“Trovare un equilibrio fra questi elementi credo sia il vero mestiere dell’architetto, ovvero capire che cosa sia sostanzialmente immutabile e quali elementi, invece, siano soggetti al flusso temporale. Possiamo immaginare l’architettura della città come un elemento stratificato dove alcuni strati sono di fatto immutabili: se pensiamo al tracciamento, ad esempio, della via Emilia, troviamo un elemento che è stabile da 2.000 anni.
Altro esempio? L’edificio dove siamo oggi è inserito in un quartiere pianificato dal Piano Beruto del 1892, con le strade principali nella stessa posizione di 130 anni fa, mentre gli edifici residenziali che si affacciano sul perimetro sono stati costruiti nel 1978. Non solo: inizialmente la destinazione d’uso era industriale, un elemento manifatturiero all’interno del quartiere residenziale, oggi ci lavorano degli architetti”.
“Se leggiamo i vari elementi in una logica ‘stratigrafica’, riusciamo a cogliere meglio sia il grado fondamentale di permanenza sia la capacità di trasformazione delle diverse parti. In questo modo intendo la relazione fra Tempo e Architettura, così come, estendendo il ragionamento, è possibile immaginare il rapporto tra Funzione e Architettura, anch’esso in trasformazione nel tempo: la Ca’ Granda era un ospedale ora è un’università; un edificio tipologicamente quasi immutato da più di 500 anni ha cambiato funzione; forse non è la struttura più efficiente al Mondo, ma questo non toglie che sia comunque un’ottima sede per la didattica universitaria. E comunque ci lascia un valore, una memoria di quello che siamo stati, la cui conservazione è quasi certamente più rilevante che la sua ricostruzione ogni 25 anni volta a massimizzarne l’efficienza”.
Architettura come sintesi non mimetismo
La dimensione di One Works è stata resa possibile da un’evoluzione della richiesta architettonica non solo sulla scala delle singole commesse, ma anche dal punto di vista della dimensione geografica del bacino di utenza dei committenti che oggi (da qualche anno ormai) abbraccia l’intero Pianeta.
Nel tempo, infatti, sono emerse nuove committenze in aree geograficamente diverse da quelle tradizionali (Europa e Stati Uniti) che non solo hanno esplicitato nuove esigenze architettoniche e infrastrutturali, ma si sono rivolte al Vecchio Continente per individuare una propria strada alle importanti esigenze progettuali necessari per colmare il gap di infrastrutturazione dei propri Paesi.
La relazione con questi soggetti e con le architetture da realizzare in questi Paesi è un elemento fondamentale nelle dinamiche imprenditoriali di One Works come puntualizza Cavalli: “Lavorando in parti del Mondo diverse (ma il concetto vale anche per zone d’Italia differenti), l’elemento contestuale non è esclusivamente connaturato con la distanza fisica fra i luoghi”.
“È vero che, quando progettiamo nel Medio Oriente e nel Golfo, il tema appare in tutta la sua rilevanza. È un tema complesso evidentemente, perché l’Architettura è indissolubilmente connaturata con la Storia di un luogo. Ritengo però che questo non sia solamente un tema di natura stilistica, ma che abbia a che fare con la storia economica del momento in cui si opera”.
“In un certo senso, se la domanda di un Paese è quella di lavorare anche con architetti provenienti da nazioni differenti, c’è un’aspettativa condivisa rispetto alla differente cultura progettuale di quel progettista, insita nella domanda che ti porta a lavorare per quel Committente”.
Puntualizza Cavalli : “Vorrei evitare di fissare il discorso attorno a un elemento stilistico storicista o di presunta lettura di una condizione culturale diversa dalla nostra. L’Italia ne è un esempio: la costruzione dei nostri caratteri culturali è figlia della contaminazione di una miriade di culture con cui siamo venuti in contatto (o con cui ci siamo scontrati) nel tempo”.
“Come progettisti, possiamo immaginarci come una piccola cellula che si incontra con il contesto sociale, culturale ed economico e le aspettative di un luogo diverso. Siccome poi il progetto non è solo l’idea di un architetto, ma l’insieme del lavoro che si mette a punto con una moltitudine di persone, molte delle quali autoctone del luogo in cui il manufatto verrà costruito, parliamo nuovamente di una forma di confronto, la cui dinamica non può che generare un oggetto architettonico che si inserisce armonicamente nel luogo dove sorge diventandone nel tempo parte integrante”.
“Ovviamente questo in linea di principio, poi ogni caso è differente: ad esempio, il mondo Mediorientale pone oggi un tema di natura culturale che richiede una sorta di contestualizzazione dell’intervento. Il rischio di questo fenomeno è una ‘disneyzzazione’ di un’idea culturale di un luogo".
"Trovo, invece, interessante il lavoro fatto dallo Studio SOM all’aeroporto di Jedda, oggi divenuto parte integrante della cultura e dell’iconografia del Regno dell’Arabia Saudita non meno delle mashrabiya che mediano il rapporto luce/ambiente in quei luoghi. Ancora una volta vale il concetto di stratificazione nel Tempo o meglio è il Tempo che, sedimentando, costruisce quelli che poi diventano i caratteri del luogo”.
Fagocitazione di funzioni vs simbiosi funzionale
Altro tema interessante e, se vogliamo, lettura dissonante rispetto alla vulgata dominante in questo periodo in alcuni filoni ancor prima culturali che progettuali main stream (purtroppo): l’assorbimento di funzioni tipicamente private all’interno di edifici funzionalmente destinati al lavoro (edifici terziari in testa).
Un elemento questo sottile, quasi sociologico che Cavalli affronta in maniera che possiamo definire laica, proprio in contrapposizione alla vulgata generale che affronta il tema con connotati che, a volte, diventano inquietantemente messianici (e per questo pericolosamente divisivi, nda): “È certamente vero che negli ultimi anni c’è stato un processo di privatizzazione di funzioni che prima si consideravano pubbliche”.
“Questo non necessariamente nei progetti con vocazione infrastrutturale, che sono per noi un soggetto molto rilevante, ma anche in altri destinazioni d’uso; mi viene in mente, ad esempio, il Nord Europa (e ancora di più negli Stati Uniti), con tutto il filone della tecnologizzazione delle strutture a uffici che stanno progressivamente introiettando spazi che storicamente erano parte dello spazio pubblico urbano”.
“Un processo che mira anche a assorbire la dimensione sociale e privata delle persone all’interno degli spazi organizzati degli uffici. Trovo questa dinamica interessante e pericolosa allo stesso tempo: l’iperspecializzazione degli uffici è diventato un elemento molto complesso dell’odierna progettazione degli spazi che è retoricamente ‘venduto’ come un vantaggio per chi vi lavora, ma che, a ben guardare, va a erodere lo spazio autonomo e il vissuto privato delle persone stesse rispetto al lavoro”.
“Io trovo questa dinamica sociologicamente discutibile; in un certo senso la mia critica punta a un processo di valorizzazione della vita delle persone all’esterno delle attività lavorative in ufficio. Troverei più sano che una volta terminato il lavoro, lo svago e le altre attività fossero svolte in luoghi altri rispetto all’ufficio e in totale autonomia per tempi, luoghi e modalità”.
Puntualizza Cavalli: “Lo stesso tema lo possiamo però leggere in modo completamente diverso, soprattutto per le architetture legate al mondo dei trasporti, dove si pone il tema di come riuscire, all’interno di una architettura che ha una storia monofunzionale, a introdurre il germe della Genericità, riportando l’attenzione dalla funzione (lo spostarsi) all’Uomo che la compie”.
“Un esempio pratico? Quando qualche anno fa abbiamo accompagnato il nuovo proprietario di Grandi Stazioni Retail, uno dei primi temi di discussione è stato il modo di far ‘aprire’ i servizi offerti dalle infrastrutture anche ai non viaggiatori”,
"Le stazioni, infatti, sorgono al centro delle grandi città, ma non necessariamente hanno rapporti con il tessuto urbano che le ospita. Proprio questo, attivare le relazione, è stato il nostro obiettivo: riportare la città in stazione”.
"Se vogliamo possiamo parlare di un’azione di ibridazione delle funzioni, non con ottica sostitutiva, ma che cerchi, in una sorta di simbiosi virtuosa, di rendere più interessante il ruolo svolto dall’oggetto stazione all’interno della città, non sostituendosi alla funzione pubblica, ma ospitando attività che all’esterno non avrebbero avuto la forza di svilupparsi”.
Conclude Cavalli: “Non si tratta in questo caso di una organizzazione del lavoro che espropria gli spazi di libertà, ma di un potenziamento dell’offerta urbana, reso possibile dalla simbiosi positiva con le funzioni infrastrutturali”.